Il nuovo codice dei contratti pubblici non ha del tutto sopito i principali interrogativi sulle società in house. Continuano a essere poco chiari alcuni passaggi tecnici, come quello riguardante l’obbligo di motivazione rafforzata laddove una PA intenda affidare un contratto a una propria società anziché rivolgersi al mercato. L’affidamento in-house, pertanto, rappresenta ancora un’eccezione alla regola della necessaria procedura di evidenza pubblica? Giova rammentare che l’affidamento diretto si muove in senso opposto rispetto ai principi pro-concorrenziali di stampo comunitario, da sempre proiettati alla massima valorizzazione del libero accesso al mercato e della libera concorrenza. Tali esigenze, nel recente passato, sono entrate in collisione con la ratio sottesa all’affidamento in house, che, esonerando la PA dall’obbligo della procedura di evidenza pubblica, consente un notevole risparmio di tempi e risorse pubbliche. Nella prospettiva degli operatori economici, tuttavia, la creazione di una società in house si traduce nella privazione di un’opportunità di guadagno. Per questa ragione l’art. 192, comma 2, D.lgs. 50/2016 (vecchio codice dei contratti pubblici) stabiliva che la PA, nella motivazione del provvedimento di affidamento, dovesse dare conto “delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché’ dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta”, esponendo quindi i caratteri del c.d. “fallimento del mercato” in quel determinato settore. Questa previsione determinava un rapporto tra ricorso al mercato e affidamento in house di tipo regola/eccezione: la PA, di regola, doveva selezionare il proprio contraente mediante una procedura di evidenza pubblica e, solo eccezionalmente, poteva procedere con affidamenti diretti a proprie società. Sullo sfondo permanevano tuttavia molteplici dubbi: quando un mercato può dirsi davvero fallito? Occorre che la prestazione richiesta non possa essere materialmente fornita da alcun soggetto, o può dirsi fallito anche quel mercato in cui gli operatori economici esistenti non soddisfano pienamente gli standard qualitativi minimi? Ed ancora, su quale base territoriale deve essere condotta siffatta analisi? La giurisprudenza nazionale, invero, facendosi carico della crescente insofferenza della Pubblica Amministrazione nei confronti di un obbligo motivazionale percepito come ingiusto e irragionevole, non ha mancato di evidenziare come il rapporto di regola/eccezione tra ricorso al mercato e affidamento diretto non fosse presente nella normativa sovranazionale. Essa, al contrario, nel considerando n. 5 della Direttiva n. 23/2014 prevede che “nessuna disposizione della direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che l’Amministrazione desidera prestare essa stessa”. Sul punto sono intervenute sia la Corte di Giustizia (sent. 6 febbraio 2020, C-89/19 a C-91/19 – Rieco s.p.a. Co) che la Corte Costituzionale (sent. 27 maggio 2020, n. 100), ma in entrambi i casi la normativa italiana è stata salvata. Le citate pronunce non negano che il Legislatore nazionale avesse introdotto all’articolo 192, comma 2, D.lgs. 50/2016 una disciplina pro-concorrenziale addirittura più incisiva rispetto a quella comunitaria. Ciò nonostante, il maggior rigore della normativa interna è coerente con la disciplina dell’Unione e rimane nel margine di apprezzamento concesso agli Stati membri. In altre parole, entrambe le Corti hanno concordato nel ritenere che il legislatore italiano avesse ampia discrezionalità nel decidere quale valore perseguire maggiormente tra la tutela della concorrenza e il principio di auto-organizzazione. E in questo delicatissimo equilibrio di interessi il vecchio codice degli appalti privilegiava la concorrenza e il libero accesso al mercato. La reale ragione sottesa all’onere motivazionale rafforzato è stata chiarita dalla suddetta pronuncia della Corte Costituzionale, la quale, nel dichiarare infondata la questione di legittimità del suddetto art. 192, ha rilevato che “una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto … è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni, e … costituisce la risposta all’abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali …”. L’introduzione del nuovo codice degli appalti, di cui al D.lgs. 36/2023, impone, tuttavia, una profonda riconsiderazione di quanto fin qui evidenziato. Infatti, l’art. 7, rubricato “Principio di auto-organizzazione amministrativa” afferma che: “Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti possono affidare direttamente a società in house lavori, servizi o forniture, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 1, 2 e 3. Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti adottano per ciascun affidamento un provvedimento motivato in cui danno conto dei vantaggi per la collettività, delle connesse esternalità e della congruità economica della prestazione, anche in relazione al perseguimento di obiettivi di universalità, socialità, efficienza, economicità, qualità della prestazione, celerità del procedimento e razionale impiego di risorse pubbliche”. Questa norma si pone chiaramente in controtendenza rispetto all’art. 192 del vecchio codice, nella misura in cui non è più richiesto alcun onere motivazionale rafforzato circa le ragioni del mancato ricorso al mercato. È ragionevole chiedersi, pertanto, se l’intenzione del legislatore del nuovo codice non sia stata proprio quella di “alleggerire” l’operato delle Pubbliche Amministrazioni, non più gravate da un onere motivazionale che vada a spiegare le ragioni di un affidamento in house in considerazione del fallimento del mercato. Cercando di veicolare queste novità sul piano pratico, è essenziale per il Pubblico Ufficiale avere esatta contezza dei contenuti motivazionali su cui deve basarsi un affidamento diretto, onde evitare contestazioni da parte degli operatori economici e conseguente paralisi dell’azione amministrativa. Sul punto giova riportare l’autorevolissimo parere reso dalla Corte dei Conti del Veneto, nella deliberazione n. 145 del 26 aprile 2023. I giudici contabili hanno adottato un approccio compromissorio, rilevando la volontà del legislatore di agevolare l’operato delle stazioni appaltanti senza tuttavia trascurare il dato letterale del nuovo articolo 7: “il richiamo contenuto nel comma 2 dell’art. 7 ai principi espressi dagli articoli 1, 2 e 3 dell’articolato normativo, induce il Collegio a ritenere che rimanga fermo l’onere motivazionale di cui si è detto, senza che possa procedersi, anche nel novellato regime, ad un affidamento diretto tout court […] Difatti, mette conto di sottolineare che i principi di cui viene chiesta l’applicazione riguardano: il risultato (nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza, che rappresenta lo strumento per conseguire il miglior risultato possibile nell’affidare ed eseguire i contratti) ai sensi dell’art. 1; la fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici (art. 2) e, infine, l’accesso al mercato, con l’onere, in capo alle stazioni appaltanti e agli enti concedenti di favorire, secondo le modalità indicate dal codice, l’accesso al mercato degli operatori economici nel rispetto dei principi di concorrenza, di imparzialità, di non discriminazione, di pubblicità e trasparenza, di proporzionalità […] Conclusivamente, dunque, anche nella novella legislativa rimane ferma la protezione, in senso ampio, del valore della concorrenza, la cui tutela è riservata, dall’art. 117, lettera e) della Costituzione, alla legislazione esclusiva dello Stato”. Appare chiara, in conclusione, l’idea che la procedura di affidamento diretto, nonostante sia stata alleggerita in punto di onere motivazionale, non possa ritenersi comunque svincolata da una valutazione che, quand’anche non debba più basarsi su un incerto e inconsistente “fallimento del mercato”, deve comunque contenere una moltitudine di informazioni (vantaggi per la collettività, connesse esternalità e congruità economica della prestazione, anche in relazione al perseguimento di obiettivi di universalità, socialità, efficienza, economicità, qualità della prestazione, celerità del procedimento e razionale impiego di risorse pubbliche). E ciò sembra suggerire l’idea della persistenza del ricorso al mercato quale regola generale e dell’affidamento in house quale eccezione. Ad ogni modo, data la recente introduzione del nuovo codice dei contratti pubblici e la delicatezza del tema in punto di risvolti pratici, è lecito attendersi ulteriori sviluppi ad opera della giurisprudenza amministrativa, in modo da fugare una volta per tutte i dubbi che inibiscono il ricorso all’affidamento diretto in house, nato con l’apprezzabile intento di semplificare e accelerare l’operato delle stazioni appaltanti.