L’accesso civico generalizzato ha rappresentato una grande innovazione nel panorama dei rapporti tra cittadino e Pubblica Amministrazione, ma a diversi anni dalla sua introduzione permangono ancora molti dubbi di carattere essenzialmente concreto: cosa si può chiedere con l’accesso? Fin dove può spingersi la richiesta di un privato cittadino? Si può imporre alla PA una richiesta di accesso particolarmente gravosa? A tutte queste domande sta rispondendo la giurisprudenza, nel tentativo di trovare un giusto punto di equilibrio tra la valorizzazione del principio di trasparenza – volto a trasformare l’Amministrazione in una “casa di vetro” – e l’esigenza di non rendere oltremodo gravosa l’attività pubblicistica. Il rischio, infatti, è che, riconoscendo un margine di operatività eccessivamente ampio per l’accesso, questo trasmodi in richieste egoistiche, strumentali ed emulative, col risultato paradossale di danneggiare l’operato della PA. È quello che accade laddove si sia in presenza di richieste di accesso generalizzato volte ad ottenere, ad esempio, una rielaborazione di dati o di documenti non formati o già formati ma secondo un criterio diverso rispetto a quello desiderato dal privato. Sul punto la giurisprudenza maggioritaria ha dimostrato di accogliere l’indirizzo volto a valorizzare la reale funzione sottesa all’istituto in commento, vale a dire il potenziamento del principio di trasparenza e, di conseguenza, del principio di buon andamento della PA. Invece, se l’accesso potesse essere utilizzato per dare libero sfogo a qualunque richiesta, anche quelle egoistiche ed emulative, il risultato sarebbe l’esatto opposto: a fronte di un notevole carico di lavoro, non si avrebbe in cambio nessun beneficio per la collettività. Si pensi a chi emetta in modo massivo e seriale una moltitudine di istanze di accesso generalizzato al solo scopo di citare poi in giudizio le Amministrazioni che non sono state in grado di rispondere (poiché già oberate da una moltitudine di richieste) e lucrare sulle spese di giudizio. È così che si spiegano i molteplici arresti della più recente giurisprudenza amministrativa, compatta nel ritenere che “l’Amministrazione non è tenuta, nel caso di istanze di accesso manifestamente onerose, a effettuare un’attività di elaborazione dei dati o documenti richiesti, non essendo previsto un obbligo in tal senso nella normativa vigente … l’istanza di accesso deve riferirsi a specifici documenti già esistenti e non può pertanto comportare la necessità di un’attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta. Tale principio deve essere esteso anche al caso in cui i documenti richiesti già esistono, ma per la mole degli atti richiesti e per i criteri della richiesta, viene imposta all’amministrazione un’attività complessa di ricerca e reperimento dei documenti che presuppone un’attività preparatoria di elaborazione di dati.” (T.A.R. Napoli, sez. IV, 28 marzo 2024, n. 2088). È evidente, pertanto, che l’istanza di accesso debba attenere a documentazione già formata dalla Pubblica Amministrazione, destinataria di un mero dovere di dare – ossia di rendere conoscibile qualcosa di già precostituito – non anche di un preliminare dovere di facere – ossia formare/rielaborare/costituire una documentazione prima inesistente. È una rielaborazione inammissibile, ad esempio, anche quella volta a chiedere a un laboratorio di analisi (concessionario di pubblico servizio) l’ostensione di informazioni concernenti gli esiti dei test positivi al virus Sars Cov 2 secondo una campionatura ben precisa, come ad esempio raggruppati per data di trasmissione alle autorità sanitarie competenti o ancora suddivisi per singola Azienda U.S.L. a cui sono stati inviati. Ciò è stato recentemente chiarito dal TAR Lazio, con la Sentenza n. 18390/2024, in cui è stato respinto un ricorso ex art. 116 c.p.a. poiché “l’oggetto dell’istanza di accesso in questione non attiene a un documento già formato ed in possesso dell’Amministrazione né tantomeno a dati facilmente estrapolabili da una banca dati”. Il TAR Lazio si è soffermato poi su un altro aspetto estremamente importante, nell’ottica di una corretta ricostruzione dell’accesso civico generalizzato, ovvero se, al di là di cosa possa formare oggetto di ostensione, l’istituto in questione possieda dei limiti di tipo funzionale (posto che sotto il profilo della legittimazione non ve ne sono, essendo utilizzabile anche dal quisque de populo e a prescindere dalla sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale). Ebbene, quand’anche il richiedente non debba dimostrare alcuna legittimazione, la giurisprudenza sembra ormai univoca nell’affermare che vadano respinte richieste di accesso civico generalizzato “manifestamente onerose o sproporzionate e, cioè, tali da comportare un carico irragionevole di lavoro idoneo a interferire con il buon andamento della PA; richieste massive uniche, contenenti un numero cospicuo di dati o documenti; o richieste massive plurime, che pervengono in un arco temporale limitato e da parte dello stesso richiedente” (Cons. di Stato, 14 marzo 2023 n 2686). La giurisprudenza sta mostrando, quindi, di essere ben consapevole delle potenziali criticità sottese a un istituto molto utile nel perseguimento del principio di trasparenza ma, al contempo, non privo di rischi per operatori economici e Pubbliche amministrazioni. In attesa di ulteriori sviluppi, la strada pare ormai tracciata: anche l’accesso civico generalizzato, come qualsiasi altro diritto, non è assoluto e incondizionato. Ogni facoltà o tutela riconosciuta dall’ordinamento giuridico reca con sé limiti intrinseci ed estrinseci, nel giusto contemperamento degli opposti interessi in gioco.